Inside Out. Sta tutto nel bigino di psicologia

Dì ciao a Rabbia

Oh, com’è, com’è? L’ultimo della Pixar, Inside Out. Carino. Solo? Da parte mia, fatevelo bastare.

Intendiamoci: la maggior parte della critica ha accolto con entusiamo il titolo, quindi sono io quello strano. Il marchio Pixar gode di un credito spaventoso, e son tutti lì pronti a spararsi dei gran trimoni a due mani a ogni nuova uscita. Poco importa che assieme a dei nomi innegabilmente validi (per quel che valgono le classifiche, ritengo ancora Wall-e il migliore, seguito da Up e Rataouille) ci siano anche dei bidoni conclamati tipo Cars e Planes.

Come capita spesso in questi casi, più raramente poi si fa il nome di Pete Docter alla regia piuttosto che quello dello Studio (plausibilmente hanno stabilito con un panel la somiglianza con Lerch degli Addams ostacola l’approvazione del PG-13). Diciamo solo che Pete Docter è il regista di vari altri Pixar, e l’autore di soggetto e sceneggiatura di altri. Suoi suoi alla direzione ci sono Up (bello) e Monster Inc (meno bello): sembra che a Peter piacciono molto le storie di “vita” e moltissimo i bambini e le tematiche legate a mostri e oggetti transizionali, e probabilmente è uno di quei tre-quattro ultimi adulti per cui non vi sentite costretti a pensar male all’affermazione “gli piacciono i bambini”. Almeno se riuscite a passare oltre le foto.

petedocter-mehemeProbabilmente l’ennesimo riassunto della trama risulterà estenuante, il principio su cui si regge la baracca è stato ampiamente pubblicizzato prima durante e dopo, e completamente spoilerato dalla pagina Wikipedia italiana il giorno prima dell’uscita (limortacci). C’è la storia di Riley, piccola piccola, che sta scritta su un francobollo, che si trasferisce dal Minnesota a San Francisco e, per ragioni che risultano limpide e insindacabili solo ad una giovane redneck americana, è triste per aver lasciato Inculandia in favore di un posto civilizzato dove non è costretta a pulirsi il sedere con le foglie di acero. Ne consegue in ogni caso il classico iter che consiste nell’adeguarsi a nuova vita, nuova casa, nuovi compagni di scuola. E c’è la storia, microscopica, ma “grande” nel modo di raccontarla, dei suoi “omini del cervello”, le emozioni personificate, che di riflesso a quelle di Riley vivono esperienze cataclismiche, conflitti personali e di larga scala, si perdono, viaggiano, si ritrovano.

Inside Out, quindi dentro e fuori. Ci si sdilingua molto, ma, gratta gratta, lo spunto non è così esoterico: è una riedizione scientista del concetto di anima e dell’iconografia relativa, che grazie a due millenni buoni di cristianesimo nel Vecchio Mondo è rappresentata ad esempio con il diavoletto e dell’angioletto sulla spalla. Prima ancora c’erano gli egizi con con una manciata di spiriti e principi vitali vari sparsi a piene mani nell’interiorità umana, e di sicuro ci sono altre varianti, ma il punto è che se avevate la preoccupazione che il senso fosse poco chiaro per i pargoli, la risposta è: sono più abituati di voi a recepire il messaggio. Persino Tarsem Singh ha fatto un film su premesse simili, considerato più brutto che cerebrale, complice il fatto che al posto di una preadolescente ci ha messo uno psicotico, e al posto degli omini del cervello nativi, JLo. E se ce la faceva Pasquale Laricchia del Grande Fratello…

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No, la domanda giusta da fare è un’altra, ed è se funziona. Ci sono metafore che se vengono guardate da vicino si smontano e l’unica maniera per uscirne è fischiettare, passare oltre e guardare almeno per un momento altrove.

Il metaforone è proprio bello grosso, in questo caso, è si dilata talmente tanto da prendere dentro tutto, e non farti porre domande sulla narrazione. Il metaforone che riguarda Paura e Digusto, istinti elementari legati all’autoconservazione, il metaforone che regge il conflitto tra Gioia che rappresenta la pulsione motivazionale, il principio del piacere che guida e governa l’azione dell’infante, e Tristezza apparentemente indesiderabile, ma che comprende anche la riflessività propria dell’adulto davanti a un mondo irriducibile alla propria individualità e l’empatia che si nutre per gli altri esseri umani e… Sì, ok, due palle così, dov’è la storia?

Inside Out o Ouch?

Inside Ouch.

La storia sembra a tratti sparire dietro il giochino intellettuale, ma anche se sta nascosta c’è, è gradevole, e la sfida è fare in modo che il manierismo non prenda il sopravvento; nel momento in cui si lascia da parte l’onanismo intellettuale ci si accorge che quelli che si son goduti di più sono i momenti in cui la metafora si mette a servizio, quando si riesce a godersi il resto; è il cammino avventuroso con Gioia e Tristezza nei meandri del cervello che vale perché il pretesto dell’esplorazione della mente serve per mettere in scena un universo pieno di invenzioni, gag e sorprese visive.

È quando Tristezza viene fuori anche come personaggio, e non solo come raffigurazione di un concetto; se risulta la vincitrice morale del film è perché ci identifichiamo con il suo percorso come personaggio vivo e riconoscibile, non perché ci sentiamo deliziati dal sotteso processo di maturazione di Riley. Percorso che è quello classico dei film con il nerd, tra l’altro, da palla al cazzo della cumpa a elemento il cui contributo è riconosciuto dalla comunità, il che, tra l’altro, rende Gioia il bullo della situazione; parliamo in effetti di una prepotente e incredibile rompicoglioni, tipo quegli animatori che nei villaggi ti vogliono far fare a tutti i costi i versi degli animali o il supersimpa delle feste che ti obbliga a essere sempre sorridente e appena cerchi di disfarti della paresi si fa vicino e ti chiede “Che c’è? Non ti diverti?”.

Inside Out e il Villaggio Vacanze dell'animatrice Gioia

Oh raga! Bella di padellaaaaaa!

È anche quando ci sono i momenti più scemi, come una gag ricorrente del tarlo da orecchio e la comparsa di un fidanzatino mentale formato One Direction.

Prestare troppa attenzione alla solidità delle basi psicanalitiche di Inside Out vuol dire che stiamo prestando più attenzione al discorso del consulente di settore che a una buona scrittura. In quei momenti in cui anche la sceneggiatura se ne scorda, vengono fuori i difetti: una commedia in cui la risata latita, qualche pesantezza di spiegone, un grande pompaggio dietro un concetto che se lo esamini senza la febbre dell’entusiasmo collettivo, ti rimane in mano solo uno ‘sticazzi. E la metafora s’è rooooootta…

 

L'autore /


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"Un coniglio grande e possente. Suoi simboli sono il martello onniveggente e la falce vendicativa." - UrbanDictionary.com -

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